DI Simone Sacco - foto Matteo Cherubino
29 January 2016
di Simone Sacco - foto di Matteo Cherubino
Perdonateci la sicumera, ma L’ultima estate di Berlino è un libro che conquista. Trecento pagine scritte con uno stile telegrafico nel senso più nobile del termine. Ovvero sotto forma di parole secche, e spesso figlie della miglior lingua italiana, che sanno creare immagini e sensazioni. Non una scrittura cinematografica né teatrale, ma che in quei luoghi dell’anima saprebbe esattamente come ambientarsi o sublimarsi. Un romanzo a due voci: quella del militare nazista Wolfgang Fürstner – esistito realmente – e quella del cronista statunitense Dale Warren, personaggio invece di fantasia che narra i retroscena, immaginati o meno, della famigerata Olimpiade berlinese dell’agosto 1936.
L’ultima kermesse globale in tempo di pace prima dello stop causato dall’immane tragedia bellica (difatti l’edizione di Tokyo 1940 non avverrà mai). La sorella sgradita di Londra 1948 dove lo sport provò faticosamente a rimettere assieme i suoi pezzi intesi come generazioni affogate nel sangue e atleti resi inattivi dal corso brutale degli eventi. Berlino ’36, insomma, è tuttora carne viva e palpitante. Manifestazione breve come tutte le Olimpiadi – due settimane appena – ma eterna nel suo
trasmetterci i muscoli d’ebano di Jesse Owens, quattro medaglie d’oro nei 100, 200, 4X100 e salto in lungo o le scarpette mai dome del maratoneta coreano Sohn Kee-Chung. Storie, le loro, che andrebbero insegnate a scuola ora che Rio 2016 è davvero a un passo, ma il mondo non ha ancora smesso di odiare, differenziare popoli, tirar su confini. «Berlino ’36 fu lo snodo cruciale del ‘900, il momento esatto in cui lo sport perse definitivamente la sua verginità. E pure tante altre cose…» come spiega Federico Buffa, uno dei due autori del libro. L’altro è Paolo Frusca. Soffermiamoci sul primo: Buffa, classe 1959, è milanese (e milanista) al di sopra di ogni sospetto. Nella vita ha fatto un po’ di tutto: l’avvocato, il procuratore di giocatori di basket, il giornalista alla nobile scuola di Aldo Giordani, il telecronista in coppia con l’amico fraterno Flavio Tranquillo, lo “storyteller” su Sky Sport e Sky Arte e ultimamente pure l’attore a teatro e tutto sempre egregiamente. La nostra conversazione, in questo caso, non poteva che partire dalla metropoli post Expo. A quell’estate tedesca di circa 80 anni fa, si arriverà per gradi.
Federico Buffa e Milano restano un binomio indissolubile. Come dire: Fabrizio De André e i caruggi di Genova, Kobe Bryant e le luci dello Staples Center, i Led Zeppelin e l’atmosfera bucolica di Bron-Yr-Aur. È così?
Sì, sono nato e cresciuto in via Savona 94. E poi, da adulto, mi sono trasferito poco distante, al numero 45. In mezzo c’era – e fortunatamente c’è ancora – lo storico Cinema Mexico che di quella via prossima ai Navigli è sempre stato l’emblema. Ora non vivo più a Milano, mi sono trasferito fuori città. Però il cuore batte sempre da quelle parti.
Non sei nuovo ai trasferimenti. A fine anni Settanta, per motivi di studio, volasti per la prima volta fino a UCLA, California...
Già, e pur vivendo e preparando esami in quello che è sempre stato il tempio del “college basket losangelino”, paradossalmente mi mancavano gli amici di via Vezza d’Oglio. Il nostro caro playground meneghino…
Immagino che al tuo ritorno sarai stato accolto come una star. Erano i primi anni Ottanta: l’NBA, allora, stava ancora in un altro universo?
Ogni volta che rimettevo piede in via Vezza, più che altro, mi divertivo a stupire i miei compagni di squadra con alcuni trucchetti imparati sui campi statunitensi. Piccole mosse che avevo scippato ai frequentatori di UCLA, tutti atleti fortissimi.
La cosa non ti suggerisce nulla?
Eh, hai ragione. Forse già allora mi piaceva comunicare/esportare cultura americana… (sorride, NdR).
Quella che poi avresti sciorinato durante le tue telecronache e nei due volumi di “Black Jesus”. Quelli originali, intendo usciti tra il 1999, “Black Jesus” su Castelvecchi e il 2002, “Black Jesus 2” su Libri di Sport.
Già, ma fammi sfatare un mito: Black Jesus fu una sorta di “confezione”, non un libro vero e proprio. Erano raccolte di articoli, scritti dal sottoscritto e pubblicati su magazine quali “Superbasket”, “American Superbasket” o sul sito di “Telebasket”.
Molti però ci sono cresciuti su quelle tue antologie. Così viscerali nel raccontare la palla a spicchi e i suoi tanti, incredibili protagonisti…
Di quelle opere conservo ovviamente una bella emozione di fondo. Ricordo che le assemblai al Caffè della Pusterla di via De Amicis, proprio qui a Milano. Il mio tavolo privato era l’ultimo in fondo alla sala: non per tirarmela da scrittore, ma semplicemente perché là c’era la presa dove poter attaccare il computer portatile!
Nel 2014 sei tornato in libreria con “Storie Mondiali”...
Un altro “non-libro” firmato Federico Buffa perché - dicono - il mio volto in copertina aiuta a vendere più copie… D’accordo, ma anche quelli restano articoli calcistici, grandi articoli calcistici, scritti dal brillante Carlo Pizzigoni. Tra l’altro ho saputo da poco che lo stesso Carlo è al lavoro su un nuovo progetto editoriale, questa volta suo al 100%. Sono felice per lui.
Nel frattempo è uscito per Rizzoli “L’ultima estate di Berlino”. E stavolta stiamo parlando di un romanzo vero e proprio scritto a quattro mani. Le tue e quelle di Paolo Frusca. Un nuovo traguardo?
Perdonami l’anglicismo, ma a me piace più vederlo come una sorta di spin-off de Le Olimpiadi del ’36, ovvero lo spettacolo teatrale (con la regia di Emilio Russo e Caterina Spadaro, NdR) che sto portando in giro all’incirca da un anno. La Rizzoli assistette alla prima milanese del gennaio 2015 e, qualche tempo dopo, mi chiese di approfondire quella vicenda tramite un libro. Ovviamente non me lo sono fatto ripetere due volte…
Perché?
Essenzialmente perché la propaganda politica, sotto il Terzo Reich, arrivò a livelli talmente chirurgici che lo sport ne sarebbe uscito cambiato per sempre. Goebbels, in occasione di quei giochi berlinesi, sottopose il mondo a un lavaggio del cervello oggi fortunatamente irripetibile.
E dire che, appena prima di Berlino, c’era stata Italia ’34. Alias il mondiale nostrano voluto da Mussolini. Nessuna somiglianza?
Sì, qualcosa di simile si intravide anche in quei nostri Mondiali “di regime”, ma Berlino ’36 andò ben oltre; come poi le tremende conseguenze della Seconda Guerra Mondiale ci avrebbero tristemente mostrato.
Come hai conosciuto Paolo Frusca?
Di lui avevo già intercettato altre cose. E, a livello di pura scrittura, l’ho subito considerato almeno cinquanta volte più bravo di me. Sai, credo che grazie alla sua penna incantevole abbiamo tradotto su pagina le nostre personalità opposte. E realizzato un libro animati da grande passione. Mi basterebbe che la critica notasse questo: la passione che ci abbiamo messo.
Tu parli di passione, ma cosa ne pensi delle tue imitazioni, un po’ irriverenti, passate in TV e sul web?
Quella andata in onda sulla Rai me l’hanno raccontata, ma io non l’ho mai vista (Buffa è impersonato dal comico Ubaldo Pantani, NdR). La cosa che mi lascia un po’ basito è: perché la televisione pubblica manda in onda una mia imitazione se il 90% dei suoi abbonati nemmeno conosce il mio nome? La parodia de Gli autogol, invece, l’ho beccata su Internet e il ragazzo che “clona” la mia voce è semplicemente bravissimo.
Torniamo alla tua Milano: qual è stato l’evento sportivo locale più emozionante vissuto in prima persona?
Milan Real Madrid 5-0, leggendaria semifinale della Coppa Campioni ’88/’89. Ero a San Siro quella sera ad esultare per i ragazzi di Arrigo Sacchi. E il mese dopo andai anche a Barcellona per la finale vinta contro la Steaua Bucarest, terminata 4-0 per il Diavolo.
C’è un personaggio meneghino che ti piacerebbe esplorare meglio durante uno dei tuoi “Federico Buffa racconta” in onda su Sky?
Enzo Jannacci, giusto per restare in ottica Milan! Sono venuto a sapere degli aneddoti su di lui parecchio toccanti. Storie talmente belle che andrebbero finalmente raccontate. Chi lo sa? Magari un giorno…
Allarghiamo il discorso: che 2016 sarà per te?
Mi piacerebbe proseguire con la tournée delle Olimpiadi berlinesi, dedicarmi ad altre produzioni per Sky Arte e possibilmente cominciare a pensare pure al mio nuovo spettacolo teatrale.
Niente basket a stelle e strisce, vero?
Quello ormai rappresenta il passato, nonostante i tuoi fan non demordano e tu ti sia ricongiunto con Flavio Tranquillo la notte di Natale...
Beh, gli americani dicono: «Amico, se funziona… non stare ad aggiustarlo!».
L’NBA su Sky sta vivendo un periodo d’oro: va benissimo a livello di ascolti, è commentata da grandi professionisti, in pratica è perfettamente funzionante e non capisco proprio perché dovrei metterci le mani io… Con che diritto poi? Comprendo l’affetto del pubblico, ma nelle grandi aziende le cose non vanno così: ci sono dei ruoli predefiniti, dei progetti che si decidono anni prima, e che vanno rispettati.
A giugno ci saranno gli Europei di calcio in Francia. Sarebbe eccitante se tu raccontassi qualche vecchia edizione di quel torneo come già avvenne per i Mondiali…
Lo so, ma i diritti di Francia 2016 mi pare appartengano alla Rai. Io sono onorato di lavorare per Sky e non posso concedermi di narrare qualcosa che il mio editore non potrà mandare in onda.
Capisco, ma come la vedi l’Italia di Conte in vista dell’appuntamento transalpino?
Non farmi parlare di calcio, dai… (sorride, NdR). Mancano ancora parecchi mesi agli Europei e questa, oltretutto, non mi sembra neppure la sede adatta.
Intervista pubblicata su Club Milano 30, gennaio – febbraio 2016. Clicca qui per scaricare il magazine.