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STORIE

Jacopo Foggini

15 April 2019

di Marzia Nicolini - foto di Francesco Pizzo

Dall’austera ed elegante Torino, sua città di origine, alla multiculturale, mai ferma ed eclettica Milano. Jacopo Foggini non si è mai pentito di questa scelta. In primo luogo perché Torino si raggiunge comodamente in un’ora di treno, ma soprattutto perché il capoluogo lombardo è capace di ispirarlo ogni giorno, contribuendo alla nascita di idee e progetti sempre nuovi. Innamorato delle qualità estetiche e cromatiche del metacrilato, per molti versi simile al vetro, ma ben più leggero,

Foggini ha debuttato nel mondo del design negli anni Novanta e da quel momento non si è più fermato. A metà strada tra designer e artista, dotato di uno spirito curioso e di una vocazione alla sperimentazione, Foggini ha in curriculum una vasta produzione artistica, che spazia da sculture luminose a opere site-specific commissionate da hotel, musei, residenze private e spazi pubblici (in Italia e nel mondo). Ecco quello che ci ha raccontato del suo lavoro e del suo rapporto con Milano nelle settimane elettrizzanti del pre-Salone.

Quando e dove nasce la sua passione per il design?

É un amore che dura da sempre: ricordo che già da bambino costruivo e inventavo oggetti per me e i miei amici. Da quel momento non ho più smesso.

Che cosa ricorda dei suoi inizi?

Ho scoperto la natura versatile del metacrilato – materiale d’abitudine usato per produrre i catarifrangenti delle macchine – lavorando nelle aziende di famiglia. Negli anni Novanta ho iniziato a sperimentarne il lato più creativo, affascinato dalle qualità cromatiche ed estetiche di questo materiale all’apparenza simile al vetro, ma ben più leggero e decisamente ipnotico.

A quale delle sue creazioni è più affezionato e perché?

Tendo a legarmi provvisoriamente alle mie opere. Questo perché una volta concepite e poi realizzate sono pervaso da quello stupore tipico di un bimbo davanti a un regalo appena scartato. Continuo a pensarci e a rimanerne affascinato, ma poi con il tempo altre ispirazioni e idee mi portano lontano da quel pensiero. E finisco con il legarmi a una nuova creatura.

A che cosa sta lavorando ora?

In questo momento sono impegnato con una mostra in programma durante il Salone del Mobile, che realizzo in collaborazione con Vitale Canonico Barberis, il più antico lanificio al mondo. A curarla è Hannes Peer, fra gli architetti più talentuosi e attivi in questo momento. È una mostra antologica che racconta il mio mondo artistico attraverso i pezzi storici della mia collezione e i nuovi progetti che presenterò quest’anno.

Qualche anticipazione?

Fra le nuove creazioni ci saranno un preziosissimo tavolo realizzato in India da artigiani locali con intarsi di madreperla, una serie di quadri luminosi formati da pannelli retroilluminati di policarbonato in cui colore, luce e materia si fondono e creano quadri astratti e infine due famiglie di candelieri.

Come vive la Design Week?

Premettendo che si tratta un evento internazionale davvero importante, ogni Salone per un progettista è sempre differente: nuovi partner, nuovi stimoli, progetti differenti dai precedenti... un’avventura elettrizzante che si rinnova a ogni primavera.

Durante il Fuorisalone, quali sono i suoi posti preferiti e perché?

Mi piace osservare la metamorfosi della città durante la Design Week. In questa settimana è bello vedere spazi chiusi e abbandonati prendere vita e cambiare aspetto per accogliere le opere di designer e artisti da tutto il mondo. Oltre alle strade della città, mi affascinano i grandi centri culturali, che in questa occasione mettono a disposizione i loro immensi spazi trasformandosi in gallerie d’arte a cielo aperto. Penso ad esempio all’Università Statale o all’Orto Botanico di Brera, che da anni accolgono installazioni monumentali.

Lei è di Torino, ma vive da tempo a Milano. Cosa le piace e cosa no di questa città?

Milano è la metropoli italiana per eccellenza, una città in continuo mutamento, in cui etnie e culture diverse si incontrano e dialogano. Sono molto affezionato alla cultura milanese e in generale mi hanno sempre affascinato le architetture e gli edifici storici della città, così diversi negli stili e insieme così contemporanei. Per non parlare della moda e della concentrazione di musei e templi dell’arte. Si tratta di realtà che viaggiano costantemente in parallelo con la mia, contribuendo fortemente alla nascita delle mie opere. E poi ritengo che nel panorama italiano, Milano rappresenti la città più attenta e sensibile alla cura dell’ambiente, pur non essendo ancora all’altezza delle altre capitali europee.

Qual è la sua zona preferita e perché?

Porta Romana: è il quartiere in cui vivo e in cui trascorro gran parte delle mie giornate. Si tratta di una zona della città popolata da piccole realtà e spazi verdi, con il pregio inestimabile di essere ben collegata con i mezzi. Ci sono legato perché negli anni è diventato il punto di incontro con i miei amici più cari, ma c’è anche un’altra area, non distante, che amo molto: si tratta dello spazio oltre la ferrovia, dove è stata costruita la famosa Fondazione Prada. In questo caso l’anima del quartiere è prevalentemente industriale, ma non manca il verde. È elettrizzante vedere come questa parte di città si stia pian piano riqualificando.

Che cosa si potrebbe migliorare?

Sono convinto che si dovrebbe rendere pedonale il centro storico.

Qual è il suo rapporto con la sostenibilità, sia nella vita privata, sia in ambito lavorativo?

Il futuro non può che essere sostenibile. Io provo a fare la mia parte e uso esclusivamente plastica riciclata.

Che senso ha il design oggi?

Devo confessare di non amare troppo il design contemporaneo. Personalmente trovo molta più ispirazione negli oggetti del passato. Realizzare del buon design costa caro e di questi tempi sono tante le aziende che non se lo possono permettere. Per questa ragione molti colleghi progettisti si devono confrontare con limiti e paletti importanti, il che non giova alla creatività.

Tra creativi più giovani, c’è qualcuno che segue con interesse?

Mi piace molto il lavoro del designer Roberto Sironi.

Come definirebbe il suo rapporto con il design?

Il cosiddetto design – non tra le mie parole preferite – vive in tutto ciò che faccio, dalla scelta della verdura al mercato, al modo di cucinare. Per me fare design è come vivere giocando. Fa parte del mio DNA: sono cresciuto in una famiglia dotata di forte senso estetico ed è qualcosa che ho respirato da sempre.

Che consiglio darebbe a chi sogna di intraprendere questa professione?

Ai giovani suggerirei di andare a fare domanda di apprendistato da fabbri, falegnami e artigiani. Meno scuole professionali e più esperienza sul campo: è quella che paga e forma. Ritengo non si possa progettare se non si conoscono a fondo e in prima persona i materiali.

Che libro ha sul comodino?

Al momento sto leggendo Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne.

Chi sono i creativi di oggi e di ieri che la ispirano e perché?

I grandi maestri: Gio Ponti, Alessandro Mendini ed Ettore Sottsass, sono stati e restano tutt’ora delle linee guida e dei punti di riferimento nel mio percorso formativo e spirituale da designer. Si parla di figure poliedriche, persone appassionate alla vita e con una sensibilità straordinariamente acuta.

Qualche buon indirizzo gourmet a Milano?

Consiglierei di prenotare una cena da Dabass, bistrot intimo in via Piacenza, e di bere un drink a la Latteria di via San Marco, in pieno quartiere Brera.

Articolo pubblicato su Club Milano 49 marzo – aprile 2019. Clicca qui per scaricare il magazine.

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