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FOOD

Enrico Bartolini

Pistoiese di Pescia, classe 1979, a 13 anni comincia a lavorare con lo zio Attilio al Colono di Larciano: sei metri di spiedo, forno a legna, la domenica 600 coperti. Frequenta la scuola alberghiera. Dopo il diploma si sente confuso e si iscrive a Economia e dà un paio di esami. A Parigi comincia la sua carriera di cuoco, poi passa per Londra, poi dagli Alajmo e per l’Oltrepò delle Robinie. All’hotel Devero conquista le due stelle. Ora è arrivato a Milano.

DI Roberto Perrone

16 November 2016

Denuncio subito la mia predilezione: adoro Enrico Bartolini, come cuoco ma soprattutto come persona. È ironico, parla a voce bassa con lentezze riflessive. Mai banale, è colto, curioso. A casa perfino le porte sono opere d’arte. La sua cucina di genio e passione ora è a Milano, al Mudec. Posto nuovo, gusto inalterato. Come diceva il mitico Rino Tommasi, i pronostici li sbagliano solo quelli che li fanno: per me Enrico avrà le tre stelle. «Noi toscani non siamo scaramantici, però…»

Se vuole ritiro...

Ma no, va bene così.

Da Cavenago a Milano, non un percorso lunghissimo?

Quando sono arrivato a Cavenago venivo dai numeri bassi delle Robinie, nell’Oltrepò. Un posto unico, però ci avrei vissuto. Invece Cavenago mi è parso da subito un luogo in cui non passare la vita. Ma c’era la struttura per riuscire a far funzionare tutto e avere gratificazioni. Iniziavo a vedere la forma di quello che facevo, una sensazione entusiasmante. Poi sei mesi fa ho ricevuto la disdetta dall’hotel. Ho velocizzato la curiosità di guardare altrove.

E lo sguardo abbraccia non solo Milano, ma anche Bergamo con Casual e l’Andana.

Tre tipologie diverse di ristorazione, nuove persone. In Toscana ho anche un’azienda agricola che confina con Podere Forte. La Val d’Orcia me l’ha fatta conoscere Pasquale Forte di cui sono amico. E per rispetto a lui non produco nulla, è talmente bravo.

E allora che ci fa con l’azienda?

Ho messo l’erba spagna, ci sono gli ulivi. E poi volevo un bosco mio dove poter cacciare i cinghiali.

E all’Andana, propaggine di Bellavista in Toscana dove ha preso il posto di Ducasse?

Ci saranno Marco Ortolani, già spalla di Gozzoli all’Armani, e Davide Macaluso. Spiedo, grande griglia, forno a legna. Nei miei piatti c’è tanta toscanità, lì bisogna tirarla un po’ più fuori. Menu compatto: pici, ravioli che assomigliano ai bottoni, una zuppa che non è la ribollita ma convince ugualmente.

E il rapporto con Milano, invece?

La prima volta che ho visto a Milano vivevo a Parigi. Sono venuto per andare a cena da Cracco, già stellato. Ho visto una città vecchia di cinquant’anni con i tram, i sampietrini, certi rumori e mi sono detto: «Ho fatto bene ad andare a Parigi». Milano, poi, l’ho vista come la città italiana dove accadono le cose. Le ho girato intorno, l’ho desiderata e ora voglio esplorarla, conoscerla e vorrei che i milanesi conoscessero la mia cucina.

Claudio Sadler dice che oggi il cuoco deve essere anche imprenditore.

Sono in equilibrio. Non voglio che dalla cucina escano piatti con meno sapore. Non so se il vero imprenditore si occupa anche di questo, però questo per me è indispensabile. Mi va di sposare un’etica e andare avanti. In questo c’è impresa e attività quindi deve finire in attivo e non in passivo. Se non tornano i conti male, se tornano così così, via. Se volevamo fare i soldi si stava in un settore diverso. Io di ristoratori che fanno il 10 per cento di utile ne conosco pochi.

Nella sua vita a chi deve dire grazie?

A tante persone. In questo periodo sono arrabbiato. Continuo a chiedermi se sbaglio qualcosa, ma soffro davanti all’ignoranza di principio. Le persone ignoranti non dovrebbero esserci, c’è Google. Massimiliano Alajmo è la persona più profonda che abbia conosciuto, non ci frequentiamo tanto ma da quando sono uscito da lì non è passato un giorno che non mi abbia rivolto un pensiero.

Il piatto di Anton Ego, che suscita emozioni sopite?

Pane, burro e acciughe. Ogni tanto qualcosa di orientale. Ho gusti così: tartare di manzo, formaggio, burro e alici, salmone selvaggio, caviale (se c’è). Il burro è sempre il premio. Un burro buono è difficile da trovare.

Articolo pubblicato su Club Milano 32, maggio – giugno 2016. Clicca qui per scaricare il magazine.

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