Il leggendario contrabbassista israeliano basato a New York suona a Milano il 7 novembre per Jazzmi 2025 con il suo nuovo trio e l’album Brightlight. Un concerto che promette di intrecciare radici mediterranee, improvvisazione e incontri che hanno segnato una vita
DI MARZIA NICOLINI
28 October 2025
Questa è una domanda eccellente, perché tocca il cuore di chi sono, come musicista e come persona. La mia musica non è un tentativo consapevole di mescolare stili: è semplicemente il suono della mia vita. Quando mi sono trasferito a New York, sono stato immerso nel Jazz: quella è stata la mia università. Ho imparato il linguaggio dell’improvvisazione, le armonie complesse, lo swing. Suonare con giganti come Chick Corea è stata una scuola straordinaria. Il Jazz mi ha dato la libertà di esplorare le mie radici all’interno di una struttura improvvisativa. La mia voce artistica è la somma di tutto questo: i ritmi ardenti del Medio Oriente e del Mediterraneo, le melodie antiche del mio patrimonio sefardita, la libertà armonica della musica latina e del Jazz. Non è “World Music”, è un linguaggio unico e organico. È il suono del mio sangue, della mia storia e del mio viaggio fino a oggi.
Ah, Jaco… sentirlo per la prima volta non è stata solo un’influenza, ma una vera rivelazione. Ha riscritto il mio cervello musicale. Il basso non era più solo un ancoraggio sonoro sullo sfondo: cantava, urlava, danzava. Era voce solista, orchestra e sezione ritmica insieme. Quel suono mi è entrato sotto pelle e non mi ha più abbandonato. Il contrabbasso è arrivato poco dopo, e lì ho capito che non stavo semplicemente suonando uno strumento: avevo trovato la mia voce. È stato come tornare a casa.
New York negli anni Novanta è stata la mia prova del fuoco. Lavorare nei cantieri, suonare in metropolitana al freddo per raccimolare poche monete: ti toglie l’ego, ti insegna che devi guadagnarti tutto, nota dopo nota. Impari a essere grato per ogni ascoltatore, ogni palco, ogni occasione. Ricordo la determinazione assoluta: praticavo otto-dieci ore al giorno, passavo le serate nei club, ascoltavo i maestri e aspettavo di poter salire sul palco. Mi hanno detto “no” decine di volte, ma non ho mai smesso di tornare.
Suonare con maestri come Chick e Danilo non è stato solo un lavoro, ma la più alta forma di educazione musicale possibile. Chick mi ha insegnato la chiarezza di visione e l’arte di costruire la propria “casa musicale”. Da entrambi ho imparato a essere un leader, a guidare un gruppo, e a onorare le radici restando contemporaneo.
Sono più di semplici influenze: sono il terreno da cui cresce tutto. Molto deriva da mia madre, discendente sefardita, che parla ladino e ama cantare nella lingua e nella cultura in cui è cresciuta.
La prima regola è toccare il basso ogni giorno, anche solo per suonare una nota. È una conversazione quotidiana con il mio amico più antico, un momento di radicamento. Come bandleader, invece, il rituale è creare un legame umano tra i musicisti, così che sul palco non siamo individui separati, ma un unico organismo in ascolto reciproco.
Il trasferimento a New York, l’incontro con Chick Corea, la creazione della mia etichetta Razdaz Recordz, la formazione della mia band. E, sul piano personale, diventare padre: questo è stato il dono più grande.
Sono felice di trovarmi a Milano in un contesto così speciale. Presenterò il mio nuovo trio, con il giovane e talentuoso Itay Simhovich al pianoforte e Roni Kaspi alla batteria. Porteremo brani da Brightlight, dai lavori precedenti, oltre a nuove composizioni. Non vedo l’ora di incontrarvi.
L’intervista di Club Milano ad Avishai Cohen è stata pubblicata su Club Milano 76