Ha giocato 756 partite con la maglia dell'Inter, vinto uno scudetto fieramente trapattoniano e tre Coppe UEFA (record assoluto).In precedenza si era già laureato campione del mondo nel 1982, contribuendo al capolavoro di Enzo Bearzot e confondendo l'Italia sulla sua vera età anagrafica. Già,perché con quei baffoni folti e la caparbietà innata, Giuseppe Bergoni da Settala ha sempre fatto le cose per bene. Anche oggi che allena i ragazzi del Como, interviene pulito nelle telecronache Sky e si appresta a vivere una nuova avventura mondiale in Brasile.
DI SIMONE SACCO
26 May 2014
Orsenigo, centro d’allenamento del Como Calcio, campi verdi e montagne a far da cornice. È qui che lavora oggi Beppe Bergomi, quando non è impegnato con l’amico Fabio Caressa a commentare le partite di cartello su Sky. 51 anni il prossimo dicembre, fisico asciutto di chi ha smesso sei mesi fa (e non nel 1999), il celebre Zio d’Italia allena con passione la Berretti comasca (mamma mia, quanto urla: pare Sacchi ai tempi delle diagonali!) e sfoggia un cuore che continua a battere per la sua Milano. Domicilio – manco a farlo apposta – in zona San Siro (“D’estate quando ci sono i concerti, invece di protestare, vado sul terrazzo e mi godo la musica”), palato saziato presso La Briciola di via Solferino e, per quanto riguarda l’altra sua professione, gli basta puntare verso Rogoredo, zona Santa Giulia, dove sorge la sede di Sky. “E pensa che quando mi affaccio dalla finestra vedo ancora il vecchio campo di via Redaelli dove è cominciato il mio sogno di calciatore tanti anni fa”. Bergomi è fatto così: fucina di ricordi e mente sana di un pallone che, marketing a parte, dovrà obbligatoriamente tornare a essere “gioco” per poter sopravvivere nei prossimi decenni. Vero, monsieur Platini?
In pratica sono tornato al punto di partenza (sorride, NdR). Eppure nel football ci sono così tante coincidenze che è quasi inevitabile diventare un pochino superstiziosi. Perfino io arrivavo a sistemarmi i calzettoni in una certa maniera prima di una partita importante, anche se non mi sono mai piaciuti gli eccessi di Rafa Nadal. Quando lo vedo giocare a tennis mi viene l’ansia da quanta scaramanzia ci mette!
Hai ragione e ammetto di non averci mai pensato. Quell’anno, d’altronde, successero troppe cose assurde: cambiammo quattro allenatori (Simoni, Lucescu, Castellini e Hodgson) e, dopo la sconfitta col Manchester United in Champions League, finimmo per sbandare. Certo, con Beckham e soci ce la siamo comunque giocata e se solo avessimo fatto un po’ più di catenaccio a casa loro… (il Manchester avrebbe poi vinto la coppa dalle grandi orecchie in una finale al cardiopalma contro il Bayern Monaco, NdR).
Sì, ma il rammarico non è tanto legato a Lippi, ma alla mia scelta di non accettare l’offerta del Coventry City che mi voleva in Premier League. Ogni tanto ci ripenso: Gordon Strachan aveva già definito l’accordo con Sandro Mazzola, il contratto era pronto da firmare, ma io dissi no. Non me la sentivo di lasciare Milano e imparare una nuova lingua.
Spunta Fabio Caressa, mi raggiunge in vacanza e mi propone di commentare le partite assieme a lui per l’allora Tele +. Della serie: si chiude una porta, si apre un portone.
Mettiamola così: se Spagna ’82 è stata l’apice della felicità e Italia ’90 il picco della delusione, i mondiali francesi sono stati una dolce, dolcissima rivincita. Poi, d’accordo, ho giocato pure quelli di Messico ’86, ma lì la squadra era logora, bisognosa di sangue giovane e il buon Bearzot aveva terminato la sua scorta di miracoli.
Più che deluso per uno, direi riconoscente verso un’altra persona, ovvero Gigi Simoni. Se non ci fosse stato lui a darmi le chiavi della difesa dell’Inter ’97 –’98, in Francia non ci sarei mai andato. Ringrazio lui e Cesare Maldini, ovviamente. A Parigi – quando l’Inter vinse la coppa UEFA contro la Lazio – ero ancora out per un affaticamento, ma mi arrivò comunque la telefonata fatidica di Cesarone. Si fidò di me e, quando nel calcio c’è la fiducia, c’è tutto.
Ricordo tutto come se fosse ora. 34esimo minuto del primo tempo: noi in vantaggio con due gol di Rossi, s’era infortunato Fulvio Collovati e bisognava compattare la difesa. A quel punto c’è poco da riflettere: entri e te la giochi con un po’ di sana incoscienza.
Per me il colpaccio del Mister fu mettere Lele Oriali su Eder, un vero tocco di genio. Sai, uno si sarebbe aspettato Gentile a coprire quella zona di campo e invece Claudio andò su Zico ed io sul gigante nero mettendo in difficoltà tutto il resto dei brasiliani. E mamma mia quante botte al Sarrià! Fai conto che un braccio di Serginho era grosso quanto una mia gamba (ride, NdR).
Che mi prendeva costantemente in giro perché con lui non segnavo mai. Poi arriva Azeglio Vicini e, alla sua prima partita da CT azzurro, io realizzo una doppietta clamorosa contro la Grecia. “Allora me lo fai apposta!”, mi disse a gara conclusa. Bearzot è stato tutto per me.
Sì, vigilia della semifinale con la Polonia, partita che non avrei dovuto disputare. “Schierano una sola punta, a questo giro vai in panchina”, il pensiero di Bearzot. Solo che poco dopo arriva Zoff e gli fa cambiare idea. Dino aveva male a una gamba e non se la sentiva di rinviare lungo. In pratica gli serviva un difensore in più per far ripartire il gioco e quindi toccava nuovamente a me.
Scoprii di giocare alle cinque del pomeriggio dell’11 luglio 1982. Arriva Tardelli, un altro grande ambasciatore di Bearzot, e mi fa: “Zio, stasera il biondino lo marchi tu”. Antognoni aveva provato in hotel fino all’ultimo, ma non ce l’aveva fatta. E così diventai campione del mondo a soli 18 anni.
Faccio un po’ fatica, ma lo accetto: ogni generazione deve essere diversa da quella precedente, look compreso. Però sul comportamento non transigo: alla base di tutto ci deve sempre essere l’etica sportiva. Allo stesso tempo i quindicenni odierni sono molto più smaliziati di come lo eravamo noi. Più che blasone o coppe da esibire, richiedono coerenza da chi li allena.
Pronostici non ne faccio, perché l’evolversi di un Mondiale è sempre complicato. Da commentatore vado là in cerca di emozioni e ti dico già che, se l’Italia non dovesse farcela, il mio cuore tiferebbe per i padroni di casa. Hai mai sentito l’intero Maracanà cantare a cappella l’inno nazionale brasiliano? Io sì e ho ancora i brividi dentro.
Se schiera Immobile titolare, perché no? Ciro, assieme al recupero di Pepito Rossi, potrebbe davvero essere l’arma in più per l’Italia. Immobile è fortissimo.
Lo farei solo per l’Inter, magari tra qualche anno, se sarò degno di quel ruolo. E comunque, a scanso di equivoci, nutro massima stima nei confronti di Walter Mazzarri.
Chiariamo subito un punto imprescindibile: per una cosiddetta “bandiera” non è un diritto acquisito trovare a fine carriera una scrivania che l’aspetti in via Durini. D’altronde i posti societari sono quelli, non si può inventarne degli altri… Il coinvolgimento emotivo, invece, non dovrebbe mai mancare. Ecco perché quello che sta facendo Erick Thohir col progetto di Inter Forever (idea nata da Francesco Toldo atta a riunire grandi nerazzurri del passato per iniziative benefiche, NdR) mi sembra una strada giusta e sensata da seguire.
Rivedrei un gol in particolare che ho segnato contro la Fiorentina, mi pare, nel 1990: un tiro al volo da fuori area che ha fatto venire giù lo stadio. Pare che quel giorno in tribuna Gianni Brera si levò il cappello in segno di rispetto. Niente male per un semplice terzino, no?
Foto di Matteo Cherubino
Intervista pubblicata su Club Milano 20, maggio – giugno 2014. Clicca qui per scaricare il magazine.