È tra i fondatori di Cesura, uno dei più autorevoli collettivi di fotografia: da Gaza al Donbass, alle Primavere Arabe, Gabriele Micalizzi ha raccontato i conflitti che hanno segnato la nostra storia
DI STEFANO AMPOLLINI
01 July 2024
Sono nato e cresciuto nella periferia di Milano, a Cascina Gobba, negli anni Novanta. I miei genitori lavoravano e spesso restavo da solo. Ero bravo a disegnare e mi sono avvicinato alla street art entrando in una crew di writers. Questo sfogo artistico mi ha tenuto lontano dai pericoli della strada e dalle droghe. Ero comunque un ragazzo molto caotico e fin da subito ho capito di trovarmi a mio agio nel disagio. Questo ha segnato il mio percorso: ho iniziato a fotografare i graffiti per paura che venissero cancellati, da lì sono passato ai tatuaggi perché è una forma artistica che lascia una traccia. Ho quindi frequentato l’ISA (Istituto Statale d’Arte) di Monza dove ho imparato le tecniche fotografiche che oggi non si insegnano neppure più e mi sono appassionato alla stampa. A quel punto il passaggio definitivo alla fotografia è stato quasi naturale, in particolare il fotogiornalismo che mi avrebbe permesso di scappare e di vedere il mondo. La fotografia è stato il mio passaporto per la libertà.
Cesura è un collettivo di fotografi con una passione sfrenata per questo lavoro che è la nostra vita. Arrivai qui a Pianello, in Val Tidone, nel 2008, seguendo la mia amica Arianna Arcara. Allora questo era poco più di un garage ed era lo studio di Alex Majoli, il nostro mentore. Ricordo che era un martedì e mi innamorai subito di questo posto. Non me ne andai più. Poco dopo ci raggiunse Andy (Rocchelli, ucciso in Donbass nel 2014) e fondammo Cesura, di cui oggi fanno parte 18 fotografi professionisti. Questo luogo, così lontano dalle opportunità ma anche dalle distrazioni di Milano, è per noi una comunità dove si vive e si fa tutto insieme. Siamo un po’ degli artigiani della fotografia e qua stampiamo e produciamo tutto quello che ci serve, comprese le cornici di questa mostra.
La fotografia, soprattutto in contesti di guerra è innanzitutto una traccia, è il ricordo. Se ci pensi quando la gente scappa dalla guerra la prima cosa che si porta dietro sono le foto di famiglia. La fotografia ha anche il compito di rendere bello ciò che non lo è. Un po’ forse quello che ho provato a fare in questa mostra. È anche un modo per esorcizzare la morte, attraverso il racconto della normalità, perché la vita va avanti, anche se nei modi più assurdi. Penso che la fotografia sia un modo per farsi delle domande, non per darsi delle risposte. Quelle ognuno le elabora dentro di sé.
La paura è la mia bussola, una sorta di barometro per capire come muovermi. Io sono una persona molto istintiva e ho bisogno della paura per non abituarmi alla normalità della guerra. La paura è il mio sistema di sicurezza per riconoscere i rischi e capire quando andarmene. Si manifesta con un’ansia, difficile da gestire, che precede i momenti in cui stai per raggiungere i luoghi dove si combatte, e spesso non ti lascia neppure quando torni a casa.
L’intervista a Gabriele Micalizzi è stata pubblicata su Club Milano 71. Clicca qui per sfogliare il magazine.