DI Valentina Lonati
05 May 2021
Il suo romanzo d’esordio lo ha portato a essere aggiunto - a sorpresa - alla cinquina dei finalisti dell’ultimo Premio Strega, vinto da Sandro Veronesi. Lui, Jonathan Bazzi, il sesto incomodo, il ruolo dell’outsider l’ha imparato fin dall’infanzia trascorsa a Rozzano, “Rozzangeles”, l'estrema periferia sud di Milano. Una provincia difficile, dura, in bilico tra le luci del centro commerciale Fiordaliso e il grigiore dei casermoni scrostati dell’ALER, diventata tristemente famosa per le sparatorie e le baby gang. Jonathan Bazzi racconta la sua storia - la febbricola insistente che sconvolge l’esistenza, la diagnosi di HIV, l’omosessualità e via a ritroso, con i ricordi dolorosi da affrontare uno per uno - dipingendo al contempo un ritratto vero, crudo, della vita ai margini della città.
Rozzano è stata in gran parte edificata negli anni Sessanta per ovviare alla pressione migratoria in arrivo principalmente dal Sud. Qui si sono insediate famiglie molto simili tra loro, che vivono secondo codici pervasivi e uniformanti. “I maschi fanno certe cose, le femmine altre”. È un mondo a sé. È il Sud sradicato, senza tradizioni, buttato tra la nebbia e le risaie. Mentre crescevo, però, mi rendevo conto che Rozzano ha una sua identità ben precisa impressa nell’architettura, nei colori, nelle persone. Sono apparenze eloquenti, che definiscono la città al punto da nascondere il resto.
Il verde. Rozzano è inserita in un contesto molto bello, quello del Parco Agricolo Sud. Solo negli ultimi anni, dopo essermi trasferito a Milano, mi sono accorto della bellezza del paesaggio che circonda i palazzoni: il naviglio, la campagna, a volte si vedono gli aironi. Una bellezza che però non emerge, che rimane da cornice. La vita, a Rozzano, scorre tra i casermoni dell’ALER. E le strade, per ironia, hanno tutte nomi di fiori. Via dei Glicini, via Giacinti, via Verbene.
Sicuramente l’accesso all’istruzione e alla cultura. Chi nasce e cresce in ambienti sociali come quello delle case popolari di Rozzano, spesso rimane confinato in micro mondi dove la contrazione dell’immaginazione è notevole. Si fa fatica a pensarsi diversi dal coro perché mancano i punti di riferimento al di fuori del proprio habitat. E cosa allena l’immaginazione? La cultura. Ma a Rozzano, ad esempio, non ci sono librerie, l’unica è quella del Fiordaliso. Incredibile, no? Questa mancanza provoca uno sguardo sulle cose e sulle relazioni superficiale, appiattente.
Non saprei quantificare, ma credo che l’eco mediatica legata al Premio Strega abbia fatto girare il mio nome, soprattutto grazie ai servizi televisivi. L’effetto del libro a Rozzano è stato ambivalente: alcuni l’hanno apprezzato, altri criticato. E questo lascia emergere un certo rifiuto della verità.
Quando mi trasferii a Milano ero sollevato di appartenere a un luogo con un’atmosfera emotiva diversa. Avevo finalmente libertà di movimento: a Rozzano ero facilmente individuabile, mi sentivo un bersaglio mobile in quanto non appartenente alla massa. Trasferirmi a Milano mi ha fatto capire quanto siano reali i problemi tra centro e periferia. C’è la necessità di dislocare il centro e di rendere più fluido il rapporto con la periferia e i comuni limitrofi, che è ancora molto rigido e di grande contrapposizione.
Intervista pubblicata su Club Milano 60, Speciale 10 anni, prima parte 2011-2015. Clicca qui per sfogliare il magazine.