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LIFESTYLE

Accomunati. Senza confini

20 April 2020

Le città sono da sempre centri per nuove idee, per il commercio, la cultura, la scienza, la produttività, lo sviluppo sociale e molto altro. Nel migliore dei casi permettono alle persone di sviluppare e far evolvere la propria condizione sociale ed economica. E tuttavia questo non basta a trasformarle in comunità. La sfida è quindi farle diventare a tutti gli effetti dei luoghi inclusivi, sicuri, sostenibili, in cui lavoro e prosperità possano coesistere senza danneggiare il territorio e le risorse, in cui sia possibile garantire un approccio solidale, maggiori opportunità per tutti, con accesso ai servizi di base, all’energia, all’alloggio, migliorando l’utilizzo delle risorse, riducendo l’inquinamento e la povertà.

Ecco fino all’inizio di febbraio lo scenario che potevamo descrivere, compreso di sfide e possibilità di miglioramento, era più o meno questo. Poi con l’ingresso del coronavirus nelle nostre vite e nelle nostre città, è cambiato tutto. O meglio gli obiettivi restano gli stessi, ma è cambiata la nostra percezione della realtà e in tanti casi anche il nostro modo di porci verso gli altri. Forse proprio perché il virus non conosce confini, passare dall’io al noi è in tanti casi sembrato l’unica cosa possibile, consapevoli che davvero questa volta “siamo tutti sulla stessa barca”. Ed eccoci a riscoprire un nuovo concetto di fratellanza e di comunità sganciato da ogni accezione politica e nazionalistica. Sarà il tempo poi a dirci se si è trattato solo di fuochi fatui o se è un’occasione per fare un salto verso un altrove di cui ci mancano le parole e anche le metafore tuttora in uso: da quelle belliche a quelle sempre facili che scambiano validi professionisti per eroi, devono fare spazio a un lessico nuovo. Sono un forte monito in questo senso le parole di Papa Francesco pronunciate in una piazza San Pietro deserta e battuta dalla pioggia: «Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo trovati su una stessa barca fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari, chiamati a remare insieme e a confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti. E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme. Nessuno si salva da solo». Parole che hanno radici più antiche del Cristianesimo, che affondano nella storia dell’essere umano e che soprattutto sono in grado di parlarci a prescindere dalla fede religiosa.

Abbiamo attraversato già tante fasi in questa nostra quarantena, dall’incredulità mista a una certa leggerezza dell’inizio che ci ha fatto dire Milano e l’Italia non si fermano, fino all’essere inchiodati dalla consapevolezza che restare a casa prima che un dovere era una responsabilità. Sono quindi cominciati i cori sui balconi in cui abbiamo rispolverato tutto il nostro patriottismo finalmente fieri di esseri italiani, salvo poi ammutolirci di nuovo di fronte al crescente numero di morti che non poteva che lasciare spazio al cordoglio. Ora siamo qui in attesa di una fatidica fase due, che dovrebbe fare da transizione verso il ritorno a una presunta normalità. Anche se ritornare a quella normalità che ci ha condotto a ciò che abbiamo oggi non è forse la migliore delle idee. La posta in gioco è alta e per usare le parole del botanico e saggista Stefano Mancuso: «Se vogliamo trarre qualche insegnamento da questa situazione, dobbiamo capire che la vita è una questione di reti, di relazioni, che ciò che è importante e che va salvaguardato è la comunità. L’idea così “animale” che abbiamo che la competizione sia ciò che governa il mondo e che vincere sia ciò che ci rende superiori agli altri esseri viventi è una follia. Perché la vita non funziona per competizione, funziona per cooperazione e sul mutuo appoggio delle persone». Ecco perché il forte senso di comunità di questo momento, il desiderio profondo di restare in contatto sorprende tutti, mettendo in luce la posizione trasversale che ci accomuna: possiamo nel contempo contagiare ed essere contagiati, essere danneggiati e arrecare danno, abbiamo insieme potere e responsabilità. Non ci resta che usarli, per il meglio.

In apertura:  Venezia fotografata appena prima del lockdown dell’8 marzo 2020. Foto di Riccardo Ruggeri

Le foto 02 e 03, rispettivamente: Milano, di Stefano Rosselli e Sao Paulo, Brazil, 18 marzo 2020, di Victor Moriyama, fanno parte del progetto 100 Fotografi per Bergamo, un’iniziativa per finanziare l’ospedale Papa Giovanni XXIII

Articolo pubblicato su Club Milano 55 marzo – aprile 2020. Clicca qui per scaricare il magazine.

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